Memorie di un 2° Capo della Regia Marina
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Giuseppe Ferrara - Memorie di un 2° Capo della Regia Marina
Nella Gibilterra italiana
Il 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra, mi trovavo in forza, quale sottufficiale della Regia Marina, alla base aeronavale dell’isola di Pantelleria. La cosidetta Gibilterra italiana. Ero arrivato nell’isola giusto un anno prima, il 24 giugno del 1939, dopo essere stato imbarcato per quattro anni. Più di tre anni sull’incrociatore Duca d’Aosta, con cui avevo fatto la guerra di Spagna, e circa un anno sul sommergibile Marcello. Quando nel ’39, a Maridepo di Taranto, ricevetti l’ordine di trasferimento per Maridist di Pantelleria ci rimasi male ed ebbi un momento di scoraggiamento. Il mio più vivo desiderio era di imbarcarmi nuovamente. Poi di Pantelleria non avevo un buon ricordo, infatti qualche anno prima ero stato in quelle acque con la nave reale Savoia. Dovevamo sbarcare il re, Vittorio Emanuele III, per una visita alle nuove opere di fortificazione, che si stavano costruendo. Ma un mare indiavolato non permise lo sbarco. Dall’oblò guardai l’isola nella foschia della burrasca; mi sembrò uno scoglio nero di lava vulcanica e pensai con pena agli abitanti di quel posto (saprò in seguito che tra la gente e i reparti, che aspettavano in piazza per rendere gli onori al re, c’era anche la mia futura moglie in divisa di Piccola Italiana). Avevo 24 anni quando misi piede per la prima volta a Pantelleria. Il primo impatto fu terribile; venivo da una terra fertile, Sarno, ricca di acque e capitavo in una terra arida senza nemmeno una sorgente. Si doveva bere l’acqua stagnante delle cisterne delle case o quella rugginosa delle navi-cisterne, i più coraggiosi bevevano l’acqua sorgiva, ma salmastra, delle buvire. Fui destinato all’autoreparto della Regia Marina, ubicato nei pressi di punta Croce, appena fuori l’abitato. L’isola era ancora tutta un cantiere, si lavorava con lena ad ampliare il porto. L’aeroporto era già terminato, per costruire la pista si era addirittura spianata un’intera collina; per il riparo degli aerei c’erano poi capienti hangar, scavati nelle viscere di un’altra collina. Il progettista era stato il famoso architetto Nervi. Nell’anno precedente la guerra, l’isola con la sua bellezza selvaggia cominciò a piacermi. Mi affascinavano i suoi paesaggi quasi arabi, come arabi erano i nomi di molte località: Kamma, Gadir, Bugeber, Kaddiuggia, Mueggen. Gli abitanti erano ospitali ed il cibo locale ottimo. Poi, cosa importante per me che ero giovane, le ragazze erano molto belle. Tutto sommato si conduceva una vita tranquilla di guarnigione. Le cose cominciarono a cambiare dopo l’entrata in guerra. Arrivarono moltissimi militari delle tre armi. Ben presto raggiungemmo il numero di oltre 10.000, uguagliando così il numero della stessa popolazione. In questo periodo incontrai alcuni sarnesi in forza al presidio dell’isola; ci fu la solita festa grande tra paesani, quando ci si incontra lontano da casa. Tra i primi Vecchione e Benisatto, tutti e due della Regia Aeronautica. Con Benisatto andavo spesso a mangiare alla trattoria di Zu Natale, di fronte al porto. Si parlava quasi sempre, con nostalgia, della cara Sarno. Altro sarnese con cui m’incontravo era Ferdinando Ippolito, imbarcato sui MAS di base a Mazara del Vallo; il suo MAS faceva scalo nell’isola per il rifornimento di benzina e di siluri quando andava in missione di guerra presso le coste della vicina Tunisia. Tra i sottufficiali della marina addetti proprio al posto di rifornimento siluri, sulla banchina nei pressi del castello Barbacane, c’era inoltre un altro paesano, Saverio Renzullo di Episcopio. Quindi lunghe chiacchierate a tre. Venni a conoscenza, ma non riuscimmo mai ad incontrarci, che qualche volta atterrava con il suo aereo a Pantelleria anche Gigino Buonaiuto, tenente pilota sarnese. Luigi Buonaiuto morirà da eroe proprio nel Canale di Sicilia il 14 luglio 1943. Il 31 luglio 1941, con brevetto n° 4569 a firma del Ministro della Marina, mi fu concessa la medaglia per la campagna di Spagna. Quel giorno riandai con la mente, con nostalgia, agli anni passati sul mare a bordo di quella splendida nave che era l’incrociatore Duca d’Aosta, comandata da un vero lupo di mare, il Da Zara (l’autore, a guerra finita, del famoso libro “ Pelle d’ammiraglio “). Nel frattempo avevo conosciuto una ragazza di 16 anni, Caterina Salsedo. Fu il classico colpo di fulmine, un semplice matrimonio di guerra suggellò la nostra unione. Passarono alcuni mesi, mia moglie aspettava un bambino, quando inattesa arrivò, come una mazzata, la notizia del mio trasferimento alla I Flottiglia MAS con base La Spezia. Era il 1° settembre del 1941. Da La Spezia fui mandato a Milano per un corso di aggiornamento sui motori navali presso l’Isotta-Fraschini. Tornato a La Spezia ebbi una breve licenza, erano già trascorsi cinque mesi che non vedevo mia moglie. Purtroppo passai quasi tutta la licenza a Trapani, in quanto, sia per le condizioni del mare sia per le insidie del nemico, non partiva alcuna nave per Pantelleria. Alla fine trovai un passaggio di fortuna su un aereo militare, che fece un bruttissimo viaggio a volo radente sul mare. Feci appena in tempo a vedere mia figlia José di pochi giorni, essendo nata il 6 gennaio 1942, che dovetti subito lasciarla per la mia nuova destinazione a Maridepo di Brindisi. Arrivai in questa città il 1° febbraio 1942. Brindisi era soltanto una tappa provvisoria, perché la destinazione finale erano le isole del Dodecanneso nell’Egeo, forse con un imbarco sui MAS. La partenza però non era ancora stabilita, per cui ogni giorno poteva essere quello buono. Una mattina ricevemmo (c’erano altri con la stessa destinazione) l’ordine di tenerci pronti. Poi inspiegabile, come spesso accade nell’ambiente militare, arrivò il contrordine. La nave, che dovevamo prendere, quella stessa notte fu affondata dagli Inglesi nel Canale d’Otranto. Nessun sopravvissuto. Il giorno dopo un ufficiale ci disse che eravamo dei miracolati. Intanto in questa snervante attesa erano trascorsi circa quattro mesi, quando improvviso arrivò l’ordine di ritrasferimento al Distaccamento della Marina (Maridist) di Pantelleria. Feci salti di gioia, tornavo finalmente da mia moglie e da mia figlia. Il primo giugno del ’42 ero di nuovo a Pantelleria, mia figlia aveva già sei mesi e non mi conosceva. La guerra è crudele perché ti divide dagli affetti più cari. Ebbi il comando del deposito carburanti a Villa Silvia, con una ventina di marinai ai miei ordini. Si trattava in verità di due grandi depositi interrati in profondità, cui si accedeva scendendo 120 gradini (quante volte li ho contati!). Quei depositi contenevano benzina per il rifornimento degli aerei e dei MAS. Un ghiotto obiettivo per gli aerei inglesi ed americani, che cominciavano a farsi vedere minacciosi nei cieli dell’isola. Tornai giusto in tempo per partecipare alla battaglia aeronavale di Pantelleria, che si svolse nelle acque dell’isola dal 13 al 16 giugno 1942. In quei giorni demmo delle sonore batoste alla Marina Imperiale inglese. Uno degli artefici fu l’ammiraglio Da Zara, il mio vecchio comandante al tempo dell’imbarco sull’incrociatore Duca d’Aosta. Da Zara trovò anche il momento di segnalare a capo Silvia, che comandava il semaforo di Sant’Elmo,il seguente messaggio: salutami la prima bella donna di Pantelleria che incontri. L’ammiraglio conosceva capo Silvia da una vita, essendo stato quest’ultimo ai suoi ordini quando la Marina Militare italiana aveva effettuato una lunga missione nei mari della Cina. Da Zara diresse le operazioni dal ponte di comando dell’incrociatore Eugenio di Savoia, proprio su questa nave era allora imbarcato il sarnese Francesco Pastore, lo seppi a guerra finita quando con Ciccio eravamo in servizio all’autoreparto della MM nel porto di Napoli. Nei giorni della battaglia, dal nostro aeroporto partivano ed arrivavano aerei in continuazione. Facevano rifornimento di benzina, bombe e siluri. Nella concitazione di quei momenti un aviere perse la vita, decapitato dalle eliche. Dall’aeroporto di Pantelleria partì il 15 giugno l’aerosilurante del tenente Aichner del gruppo Buscaglia, che silurò, affondandolo, il caccia inglese Bedouin, già in avaria per le cannonate delle navi italiane. Intanto il nostro cacciatorpediniere Vivaldi, con un furioso incendio a bordo causato dai colpi nemici, riparava nell’altro porto dell’isola, quello di Scauri. Solo dopo un duro lavoro si riuscì ad aver ragione dell’incendio e salvare così il caccia. Lamentammo però la perdita di alcuni giovani marinai dell’equipaggio del Vivaldi, che furono seppelliti nel cimitero dell’isola. Anch’io feci la mia piccola parte in quei giorni. Dal Comando ricevetti l’ordine d’imbarcarmi su un veliero per andare a raccogliere dei naufraghi nel Canale di Sicilia. Quando giungemmo sul posto ne prendemmo parecchi, erano tutti marinai inglesi. Offrii una sigaretta ad un ufficiale medico, che aveva delle brutte bruciature al volto e che doveva soffrire molto per il dolore. Me la rifiutò sdegnoso, evidentemente non aveva ancora digerito la sconfitta. Mentre stavamo sulla rotta del ritorno, nell’oscurità della notte, un caccia inglese ci tagliò la strada, stava quasi per speronarci. Ricordo ancora il grido del capitano siciliano del veliero: bedda Madre Santissima. Il nemico non si accorse di noi, era troppo occupato a scappare. Il bollettino di guerra n° 749 del 17.06.42 riportò la notizia del salvataggio degli inglesi. Appena sbarcati a Pantelleria, i marinai inglesi prigionieri furono rifocillati con un piatto caldo di pastasciutta. Non abituati a quel tipo di mangiare, presero una violenta diarrea. Apriti cielo. I responsabili furono messi agli arresti per ordine diretto dell’ammiraglio in capo Cesarano. L’episodio provocò malcontento tra i nostri marinai. In quel periodo cominciarono a circolare strofette del tipo: ammiraglio Cesarano più inglese che italiano. Qualcuno andò oltre, parlando di disfattismo dei nostri vertici militari. Non credei a quelle voci. A perenne ricordo della bella vittoria delle armi italiane, che passò alla storia con il nome di battaglia di Pantelleria o di Mezzogiugno, si eresse a Beccimursà un’edicola, in maiolica policroma, a devozione della Madonna quale Stella Maris protettrice dei marinai. Nell’isola facevano spesso scalo gli aerei tedeschi diretti in Africa settentrionale, fu proprio l’equipaggio di uno Junker a regalarmi un bel cane lupo femmina di nome Iole. Il cane assai affettuoso ed ubbidiente con me e mia moglie, con gli altri dimostrava un carattere non proprio docile; tanto che una volta, stando con mio suocero, sgozzò una capra e mio suocero fu costretto a pagare il danno al proprietario. Nell’inverno ’42 – ’43 le notizie dai vari fronti non erano favorevoli per le nostre armi, specialmente sul fronte nord-africano, quello a noi più vicino.
Attacco e resa di una piazzaforte
In Africa le cose continuavano a non andare bene per i nostri soldati, impegnati nella sanguinosa battaglia di Tunisia. Quando poi alla fine di aprile del ’43 vidi arrivare, nel porto di Pantelleria, delle motozattere stracariche di soldati tedeschi, che sostavano il tempo necessario per il rifornimento della nafta e subito ripartivano per la Sicilia, capii che era in corso la ritirata e che presto sarebbe toccato a noi. Terminava la felice stagione dell’isola quale sentinella non combattente. La mattina di sabato 8 maggio 1943 non ero in servizio e mi trovavo sul tetto della nostra abitazione di via Trapani a preparare un gabbione per i colombi, di cui ero e sono un appassionato. All’improvviso sentii come un rombo di tuono continuo, che aumentava man mano d’intensità. Poi sbucarono dalla parte del mare: erano decine e decine di aerei; sembravano le nuvole nere di un temporale. Non scappai perché restai come pietrificato. In un attimo sorvolarono il paese per andare a sganciare il loro carico di bombe sull’aeroporto. Dalla mia posizione, mi sembrò di assistere ad una vera e propria eruzione vulcanica tanto fu l’intensità di quel bombardamento. Se quel giorno il Comando Alleato, invece dell’aeroporto, avesse dato ordine ai quadrimotori di bombardare Pantelleria centro, ci sarebbero stati in pochi minuti sei o settemila morti tra i civili. Quel primo attacco aereo fu come un segnale d’avvertimento. La gente abbandonò in massa il paese, rifugiandosi nelle case di campagna e nei molti ricoveri e gallerie, di cui l’isola era attrezzata. Da quel momento iniziò il calvario. Nei primissimi giorni saltò in aria la centrale elettrica e non avemmo mai più corrente. Nei 35 giorni d’inferno fino al momento della resa, l’aviazione anglo-americana compì un totale di circa 140 incursioni, ed ognuna era effettuata da centinaia di aerei, cioè una media di 4 incursioni al giorno, senza contare gli attacchi dal mare da parte della flotta inglese. Sapremo a guerra finita che tra bombe d’aerei e granate navali furono lanciate su Pantelleria circa 20mila tonnellate d’esplosivo, una media di 1 tonnellata a testa per abitante, sia civile che militare, sia bambino che vecchio. Ancora oggi nelle accademie militari di tutto il mondo si studia la conquista di Pantelleria come il primo ed unico caso di una piazzaforte caduta per la sola azione dell’aeronautica. Stare sotto un bombardamento senza poter far nulla, anche se si è riparati in un ricovero, è una cosa allucinante. Se poi i bombardamenti si ripetono nel corso della giornata, e ciò avviene per giorni e giorni, si rischia d’impazzire. Com’era impazzito il mio povero cane lupo Iole, che appena sentiva il rombo degli aerei prima mugolava, poi diventava furioso. Al deposito carburanti di Villa Silvia non ci restava che affidarci ai Santi, se una sola bomba l’avesse centrato, di noi sarebbero restati solo atomi sparsi. Eppure tra i marinai ai miei ordini non ci fu mai una lamentela, una protesta, compirono il loro dovere in silenzio fino all’ultimo giorno. Durante questi bombardamenti mio suocero, Salvatore Salsedo, ebbe praticamente distrutto l’intero patrimonio immobiliare. In macerie la bella palazzina a due piani in corso Vittorio Emanuele, così pure in macerie quella ad un piano di via Giovanni Bovio e il negozio di via Trapani. Diroccata nella rampa di scale la palazzina di via Trapani, dove abitavamo. I miei suoceri, insieme con mia moglie e mia figlia, si erano rifugiati nei dammusi (case tipiche dell’isola) di contrada Grazia, dal bel nome arabo di Nauvriccibab cioè valle dei mandorli in fiore. Infine non bastando le bombe, ci si misero anche i tedeschi, facendo saltare in aria con la dinamite i dammusi di Bukkuram, di proprietà di mia suocera Almanza Rosa, in quanto gli stessi erano stati adibiti a depositi di munizioni e non si voleva che cadessero nelle mani degli anglo-americani. In pochi giorni svanì nel nulla un patrimonio accumulato con il sudore di molte generazioni, Comunque i miei suoceri furono in buona compagnia, perché alla fine delle ostilità Pantelleria centro non esisteva più, erano state distrutte il 95% delle abitazioni. Una volta fui sorpreso durante un bombardamento nei pressi del cimitero e mi rifugiai lì dentro. Ebbi una visione agghiacciante: tombe scoperchiate, ossa sparse ovunque, perfino corpi. Era il risultato di un precedente attacco aereo che aveva colpito il luogo sacro. Neanche i morti trovarono pace in quei giorni d’inferno a Pantelleria. La vita che si conduceva allora, spesso saltando i pasti, senza dormire, con l’acqua razionata, sempre con la vita in pericolo, non si può descrivere adeguatamente, eppure non ci fu mai un moto di ribellione della popolazione, né sbandamento dei reparti militari. Questo dato dovrebbe far riflettere sul silenzioso sacrificio di tutta quella gente, sacrificio sporcato da una resa, che ancora oggi presenta aspetti oscuri (tradimento?) mai chiariti. Voglio solo ricordare che in quei giorni circolava, tra i nostri soldati una giaculatoria, che recitava così: ammiraglio Cesarano più inglese che italiano, ammiraglio Pavesi piuttosto che morti meglio arresi. Sono convinto che se l’ammiraglio Gino Pavesi avesse dato l’ordine della resistenza ad oltranza, i reparti si sarebbero comportati bene. Infatti la voglia di resistere c’era, l’avevano dimostrato le nostre batterie che, con pezzi antiquati della prima guerra mondiale piazzati allo scoperto, avevano abbattuto più di una trentina di aerei anglo-americani. Anche se avevano pagato a caro prezzo il loro coraggio. La batteria di Punta Croce, comandata da Bertucci, fu colpita in pieno da una bomba da 500 chili. Degli uomini, con cui avevo tante volte chiacchierato nelle lunghe sere d’estate, si trovarono solo brandelli dei corpi. La batteria di Cuddie (colline) Rosse, che ne aveva mandato giù più d’uno di apparecchi nemici, fu colpita anch’essa; una bomba centrò poi l’entrata del ricovero dove si erano rifugiati gli addetti. Seppelliti vivi per ore, tra essi mio cognato Agostino Salsedo della MILMART, si salvarono scavando al buio con le mani e le baionette. Agostino restò senza voce per giorni. Anche le altre batterie pagarono il loro tributo di sangue, una trentina di morti ed un centinaio di feriti, in maggioranza camicie nere della MILMART. Negli ultimi giorni, in qualche incursione, invece di bombe piovvero migliaia e migliaia di manifestini, erano firmati dal generale Spaatz che ci invitava alla resa senza condizioni. Usammo quei manifestini per carta igienica. Intanto tutte le donne e i bambini, che si erano rifugiati nei ricoveri dell’aeroporto, vennero fatti evacuare con gli ultimi voli in Sicilia. Sembrò che ci si preparasse alla resistenza ad oltranza. Certo avemmo paura, ma stringemmo lo stesso i denti. Invece fu ordinata la resa dell’isola da parte dell’ammiraglio Pavesi. Era l’11 giugno del 1943. Di tutta la questione della resa e se ci sia stato tradimento o meno non voglio parlare. Dopo la guerra seguii con attenzione il processo intentato da Pavesi ed altri ammiragli contro lo storico Trizzino, che li aveva accusati di tradimento nel suo libro “ Navi e poltrone “. Trizzino fu assolto. La mattina dell’11 giugno ero in servizio al deposito carburanti di Villa Silvia. Mia moglie con la piccola José si era rifugiata in una galleria vicina. A questo punto mi sembra più opportuno riportare stralci dell’intervista, fattami da un inviato speciale del Giornale di Montanelli, in occasione di un ampio servizio per il cinquantenario della caduta di Pantelleria pubblicato sul numero dell’11 giugno 1993: “…..dai muri circostanti, dalle rovine, hanno fatto capolino venti, trenta inglesi che ci tenevano sotto mira con i Thompson imbracciati. Uno di loro mi ha gettato a terra il berretto con la canna del fucile e allora non ho retto all’affronto e ho pianto….. fuori dalla galleria ritrovai mia moglie – prosegue Ferrara – e un ufficiale australiano mi si avvicinò interpellandomi in dialetto italo-napoletano “Sei tu il capo?” “Sì” “Quanti uomini hai?” “Venti” “Perché vuoi andare a soffrire in prigionia? Ti teniamo qui e continuerai a fare quello che hai sempre fatto, dimmi dove sono ubicati depositi e materiali, collabora con noi e resterai accanto a tua moglie” “Sei un ufficiale, ribattei, per chi fai la guerra?” rettificò la posizione e rispose “Per Sua Maestà Britannica” “E io per Vittorio Emanuele e con voi non ci resto”. Mi portarono in Tunisia dove venni consegnato ai francesi: fame, insulti, percosse, pidocchi…..”.
Prigioniero dei Francesi
Villa Silvia, la postazione militare in cui fui catturato dagli inglesi, non era molto lontana dal porto, per cui fui tra i primi prigionieri a lasciare l’isola di Pantelleria a bordo di una grossa motozattera. Era, ripeto, l’11 giugno del 1943 ed avevo 27 anni. Intanto mia moglie Tina, con in braccio mia figlia, nella grande confusione di quei momenti mi aveva perso di vista dopo il mio colloquio con l’ufficiale australiano e quindi mi cercava ancora affannosamente tra le lunghe file dei prigionieri, incolonnati in attesa dell’imbarco, chiedendo notizie ai miei colleghi. Un corrispondente di guerra inglese immortalò la scena con la sua macchina fotografica. La foto fu poi pubblicata, con una breve nota, da una rivista inglese, che ebbi la fortuna di avere tra le mani in prigionia; tirai così un grosso sospiro di sollievo sulla sorte dei miei cari. Conservo gelosamente il ritaglio di quel giornale, così come conservo ancora un’immaginetta sgualcita della Madonna della Foce, che mi fu assai di conforto nei molti momenti neri di quel triste periodo. Nei tanti mesi di prigionia non ebbi mai notizie di mia moglie, né quest’ultima di me, malgrado tutti e due ci scrivessimo regolarmente tramite la Croce Rossa. La motozattera ci sbarcò sulla vicina costa tunisina e da lì raggiungemmo il “ campo di transito” di Medjez el Bab all’interno della Tunisia, dove restammo, trattati bene dagli inglesi, per una ventina di giorni. Una mattina ci fu una specie di selezione ed un grosso contingente di prigionieri fu consegnato ai francesi; capitai con quest’ultimi. Era il 1° luglio 1943. Allora non sapevo ancora di essere stato sfortunato in quella conta. Ignoravo, come tutti gli altri, che esisteva tra i campi di prigionia degli Alleati una diversa gradazione di vivibilità, a secondo della nazione che ne aveva la giurisdizione. Il clima dei campi di concentramento inglesi era severo nella disciplina, ma umano nel trattamento. Il vitto poi era uguale alla razione che spettava al soldato inglese delle retrovie. Nei campi americani invece era tutta un’altra cosa. Vitto abbondante, sigarette, igiene e parecchia libertà. Al limite opposto si trovavano i campi di prigionia francesi, dove la vivibilità era uguale a zero, con un tasso di mortalità enorme al confronto di quelli inglesi e americani. “ I francesi furono delle vere carogne nei confronti dei militari italiani prigionieri “ questa frase non è mia, ma di uno storico attuale, alieno dalle frasi forti, Giorgio Rochat, professore di Storia delle istituzioni militari all’Università di Torino. Dopo la guerra si parlò molto delle condizioni disumane dei prigionieri militari italiani nei campi della Germania e della Russia; di noi, che eravamo stati sotto i francesi, niente. Solo ora storici, del calibro del citato Rochat, si stanno occupando della cosa con studi approfonditi, che rendono finalmente giustizia ai patimenti di tanti e alla memoria di molti che non sono tornati. Gli ufficiali francesi, che ci presero in consegna quella mattina del 1° luglio del 1943, si servirono per la nostra scorta di sentinelle arabe. Queste, sapendo di fare cosa gradita ai propri superiori, non si risparmiarono di colpirci con il calcio dei moschetti e di insultarci, trovando la scusa che eravamo lenti durante la marcia di trasferimento verso il campo di concentramento francese n° 15 presso Ben Arous, nel circondario di Tunisi. Quando arrivammo in questo campo, ci accorgemmo che non c’erano baracche, ma solo filo spinato; si dormiva all’aperto sotto i grandi alberi d’ulivo. Per fortuna si era in piena estate. Il campo n° 15 era già sovraffollato di prigionieri, in maggioranza reduci dell’armata italiana africana. C’erano anche dei tedeschi, ma questi erano separati e più organizzati. Vedendo i corpi denutriti di quella massa di uomini, capimmo subito che lì si doveva soffrire la fame più nera. Infatti molti ci chiesero qualcosa da mangiare, ma non avevamo nulla perché eravamo stati depredati di tutto dalle sentinelle di scorta. All’avvicinarsi dell’inverno ci fecero costruire delle specie di baracche, che non riparavano un bel niente. Fu solo grazie al clima, se oltre la fame, non patimmo anche il freddo. Piatto forte della razione quotidiana era quasi sempre una brodaglia di fave. Per gamella avevo rimediato un vecchio barattolo di carne in scatola e per cucchiaio il coperchio di un barattolo più piccolo, fissato col filo di ferro ad un’asticella di legno. Nel campo di concentramento di Ben Arous c’era abbondanza solo di pidocchi. Di notte erano un tormento, che superava quello della fame. Tale Santorelli, sergente volontario nelle guerre africane e già studente universitario in filosofia a Napoli, a proposito delle nostre condizioni scheletriche usava dire: ” I francesi sono amanti dell’arte, per questo ci hanno ridotti come tanti Cristi del Mantegna “. Il primo Natale di prigionia fu tristissimo. Fame sempre più nera e pidocchi sempre più grossi. Perfino l’acqua che si beveva era putrida, forse anche per ciò la dissenteria tormentava molti del campo. Una volta ebbi notizia che c’era uno della fanteria, originario di Sarno e precisamente di piazza Lago, ma per quanto cercassi non mi riuscì di trovarlo. Speriamo che se la sia cavata anche lui da quell’inferno. Per le continue privazioni un giovane barese della nostra baracca impazzì e le sentinelle risero di quel povero disgraziato. Alcuni di noi non ce la facevano più a reggere quell’orribile vita. Studiammo un piano di fuga. L’occasione di metterlo in pratica ci fu data da una visita del generale De Gaulle nella zona. Scappammo di notte, guidavano il gruppo alcuni veterani della guerra d’Africa esperti in campi minati. La loro esperienza fu determinante per salvare la ghirba (la pelle), infatti dappertutto c’erano ancora estesi campi minati del tempo della battaglia di Tunisia. I francesi si accorsero subito della nostra fuga e sguinzagliarono alla nostra ricerca delle pattuglie di soldati senegalesi. Durante il giorno una di queste ci passò vicinissima, ma non si accorse di nulla in quanto eravamo nascosti tra le stoppie di un campo. Avevamo appena aggirato un altro campo di concentramento ed eravamo giunti ai bordi di un campo d’aviazione improvvisato, quando fummo sorpresi da una ronda armata. Fortunatamente erano soldati americani. Ci condussero al campo di prigionia, che avevamo appena oltrepassato; era sotto la loro giurisdizione. C’erano rinchiusi nostri connazionali, i quali ci accolsero bene. Avemmo subito un pasto sostanzioso e dei pacchetti di sigarette. Dai francesi fumavamo foglie secche arrotolate, che erano un pugno ai polmoni. Fummo spidocchiati con della polvere bianca, credo fosse DDT e infine avemmo il lusso di una doccia. Gli americani ci presero in forza al loro campo, senz’altre formalità. Ci sembrò di essere capitati in un hotel, scoprimmo poi che molti altri ci avevano preceduto nel medesimo tragitto. Purtroppo la pacchia durò solo un mese. I francesi avevano scoperto dove eravamo per una spiata, mi dispiace dirlo, proprio di un italiano collaborazionista, che incontrai dopo la guerra a Palermo e che, riconosciutomi, si confuse subito tra la folla. I francesi dunque ci reclamavano con insistenza, gli americani facevano però finta di non sentire. Il tira e molla finì con un accordo, che sanciva la restituzione dei prigionieri scappati solo a partire da una certa data retroattiva. Noi non rientrammo nella sanatoria. Il ritorno fu talmente triste, da non accorgerci dei maltrattamenti e delle percosse della scorta senegalese. Tornavamo tra la fame, le cimici e i pidocchi. Prendemmo anche una quarantina di giorni di carcere duro, il che significava digiuno quasi completo. Riuscimmo a sopravvivere grazie alla generosità di un siciliano, che, a suo rischio e pericolo, ci faceva avere di nascosto dei fichi secchi e dei datteri, cibi molto energetici. Intanto la guerra stava terminando e le cose cominciarono lentamente a migliorare. Molti di noi vennero mandati a lavorare in campagna nelle grandi tenute agricole, tolte agli italiani. Si godeva così di una certa libertà, si mangiava decente e ci si poteva curare meglio l’igiene personale. Gli ufficiali e i sottufficiali francesi cominciavano poi a redarguire aspramente, anche ricorrendo al frustino, le sentinelle arabe, che osavano maltrattarci. Iniziammo a non rientrare più al campo. Restai in una bellissima tenuta nei dintorni di Tunisi, confiscata ad un certo Schiano italiano. Mi fu dato il comando di una ventina di marinai per i lavori agricoli: piantavamo meloni e curavamo i vigneti. Tra quei marinai c’era anche uno di Pantelleria, tale Bernardo. Dormivamo nella tenuta, io in una zeriba (casetta) tutta mia. Andavo d’accordo con il sergente francese Ghenville (?), incaricato di sorvegliarci con una pattuglia di arabi. Ghenville era un brav’uomo, un borghese richiamato alle armi. Diventava però intrattabile le rare volte che beveva, allora inneggiava alla grandeur francese disprezzando noi italiani per la pochezza militare, io rispondevo per le rime dicendo che in fondo la loro potenza militare s’era squagliata come neve al sole davanti al rullo compressore tedesco. Si rischiava di litigare di brutto, anche perché gli arabi approfittando di ciò armeggiavano pericolosamente con i loro moschetti. Il giorno dopo non era successo nulla, amiconi come prima. Poi, come Dio volle, la guerra finì. Credevamo di andarcene l’indomani, invece dovemmo penare altri otto lunghi mesi, certamente anche per il menefreghismo del governo italiano. Un bel giorno ci portarono con degli autocarri al porto di Biserta, dovevamo imbarcarci su una nave, la Toscana, venuta apposta dall’Italia per ricondurci in patria. Piangevamo dalla felicità. Ci fu però uno spiacevole incidente, che rischiò di mandare tutto all’aria. Appena a bordo, alcuni gruppi di ex prigionieri sputarono addosso alle sentinelle francesi giù sul molo. Esplodeva la rabbia compressa per i soprusi patiti nei lunghi anni di prigionia. Successe il finimondo. I francesi che minacciavano di sparare, noi, che eravamo ancora in fila in attesa dell’imbarco, temevamo che si rimandasse ancora una volta la partenza. Alla fine prevalse il buonsenso e tutto si appianò. La traversata fu silenziosa. Ognuno era immerso nei propri pensieri. Anch’io. Avevo 30 anni e pensavo alla guerra perduta, ai tanti amici che non sarebbero mai più tornati, alla giovinezza volata via tra la guerra e la prigionia, ma quello che più mi rodeva era l’assoluta mancanza di notizie della mia famiglia a Sarno e di mia moglie e di mia figlia a Pantelleria. Sbarcai a Napoli il 24 febbraio del 1946. Nemmeno il clima ci accolse benevole e nemmeno la gente, indifferente. Però era finita. Si tornava a casa, finalmente!
Orazio Ferrara
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