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Riporto qui di seguito un articolo apparso sulla prima pagina de un po' di anni or sono a firma di Domenico Quirico. Mi è piaciuto tantissimo e l'ho conservato tra i miei appunti.
L’ASCARO DEL CIMITERO D’ASMARA Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe. Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo, indossa con stile l’impermeabile macchiato che gli regalarono i soldati di sua maestà britannica tanti, troppi anni fa, mocassini assurdamente bianchi, il bastone sotto il braccio piegato ad angolo retto come usavano gli ufficiali di antichi imperi defunti. E’ davanti ad una tomba bassa, le sillabe di un nome incollate al lucido rosso, Orlando Lorenzini, con una data e un luogo, Cheren 1941. Il vecchio ascaro scuote la sua stanchezza, il braccio ha un gesto secco quando la mano aperta corre alla fronte per un saluto eterno come un pugno di secondi. Tutti i giorni in questa città percorsa dai brividi di una prossima indipendenza dopo trent’anni di patimenti, Ghelssechidam viene qui, e ripete la sua anacronistica sfida contro il tempo. Percorre i piccoli viali incendiati dal viola delle jacaranda che la pietà ha riservato ai caduti di guerra italiani, sillaba nomi dimenticati ma che per lui significano militaresche solidarietà, passioni e paure cementate dal campo di battaglia. Alla fine si ferma davanti alla tomba dell’eroe di Cheren, ultima battaglia dell’impero italiano agonizzante, e ripete il suo gesto d’amore.
Ghelssechidam, un tenero vecchietto di 80 anni, come gli altri 1600 ascari di Eritrea, non è un bislacco relitto del passato. Invece è imbarazzante come un rimorso: il rimorso per tanta energia di passioni che non abbiamo saputo meritare. Il rimorso per le certezze del nostro terzomondismo esotico in cui la sua fedeltà stona come una bestemmia. La memoria del vecchio ascaro brucia i decenni. Il giorni in cui il duca d’Aosta passò in rivista il suo reggimento, per esempio. "Era un uomo alto quasi due metri. Quando vide che avevo sulle maniche tre decorazioni chiese al mio comandante: "Come mai lui così piccolo è già così decorato?". Il colonnello gli raccontò che avevo salvato un ufficiale ferito e allora il duca disse: "Bravo!" e mi regalò 300 lire. Che festa quella sera". Era buono il duca d’Aosta, non come Graziani che lo fece fermare per 3 giorni tra le rocce di una amba trafitta dal sole perché non era dignitoso che gli ascari entrassero in una città conquistata prima del futuro maresciallo. Il 15 febbraio 1941, quando tra le acacie di uno sperduto campo di battaglia una fucilata fermò la sua storia di onesto mercenario innamorato, l’ascaro ferito era solo. "C’era sempre qualche "nazionale" che scappava. Avanti andavamo noi, i fessi". Eppure il vero servizio di questo povero cincinnato eritreo che gli inglesi avevano spedito al villaggio con un aratro di legno, è cominciato allora. L’Italia era sparita, si avvicendavano nuovi padroni, inglesi ed etiopici. Ma lui, Ghelssechidam, continuava a venire qui, in questo cimitero degli uomini e della memoria, per ribadire la fedeltà di quel patto.
Tutta l’Italia era un libretto ingiallito percorso dalla calligrafia di un burocrate di una volta: il libretto di servizio che rendeva il pugno di birr (la moneta etiopica) della pensione. Gli occhi del vecchio ascaro sono stanchi, gli sfuggono cifre e timbri che su un quadernetto di scuola riportano i versamenti. L’ultima cifra è un 329, ma quando la leggo il vecchio ascaro si irrigidisce: "Io non mai preso una cifra così grande, mi hanno frigato": Dice proprio così, "frigato". Rimette via il libretto, non è dignitoso parlare di soldi. Tra pochi giorni il suo Paese diventerà indipendente. Sorride piano, e sussurra: "Se torna Italia, io sono un signore".
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