Alessandria: De La Penne-Bianchi
|
Ore 20.47 del 18 dicembre. Lo Scirè è nel punto prestabilito dall’ordine operativo (1,3 miglia per 356° dal fanale del molo di ponente del porto commerciale di Alessandria) e, in emersione, iniziano le operazioni per mettere a mare i tre "maiali". Inizialmente fuoriescono dalla torretta del sommergibile gli operatori di riserva per non affaticare gli operatori nello sfilamento degli apparecchi dai contenitori cilindrici. Fuoriuscita degli operatori e dei mezzi secondo Rudolf Claudus Tutto avviene senza intoppi e, poco dopo, le tre coppie di operatori iniziano la navigazione. In qualità di capo gruppo ed in relazione all’esperienza delle precedenti missioni, De La Penne decide di compiere la navigazione in superficie ed in formazione fino alle prime ostruzioni del porto di Alessandria. Il mare era calmo e non c’era vento. Dopo circa due ore di navigazione, i tre "maiali" giungono di fronte al faro di Ras el Tin e tenuto conto dell’anticipo sull’orario previsto, De La Penne ordina di estrarre il tubo portaviveri e fare colazione. Poco dopo gli operatori presero contatto con le prime ostruzioni retali. Dice De La Penne "Vediamo anche un grosso motoscafo che incrocia silenziosamente dinanzi al molo lanciando delle bombe. Le bombe ci danno fastidio". A questo punto entrò in gioco la fortuna che, in passato, poco aveva accompagnato gli assaltatori. Tre cacciatorpediniere si avvicinarono per entrare in porto; l’ostruzione retale venne quindi aperta per consentirne il transito ed i tre "maiali" prontamente si infilarono nella scia delle siluranti britanniche, a rischio di venire travolti dal moto delle eliche e scossi dalle onde prodotte dalle navi. Nell’inevitabile confusione verificatisi, i tre equipaggi si persero di vista. Da qual momento le azioni di De La Penne, Marceglia e Martellotta si separarono. Appenda dentro il porto, De La Penne si imbatté nelle navi da guerra francesi internate ad Alessandria sin da luglio 1940, quindi, identificò la corazzata a lui assegnata, ormeggiata ove previsto. L’ultima ostruzione retale parasiluri che proteggeva la Valiant, venne superata di slancio in superficie "per perdere meno tempo possibile e perché le mie condizioni fisiche, causa il freddo, sono tali che ritengo non poter resistere ancora a lungo". Il suo vestito lasciava penetrare acqua sin dall’inizio della missione. Erano le 02.19 del 19 dicembre e De La Penne-Bianchi si trovavano a 30 metri di distanza dalla Valiant. Ma accadde l’imprevisto: il freddo intenso impedì a De La Penne di manovrare correttamente il suo mezzo e, mentre toccava la carena della nave, il motore rimase avviato. Il "maiale" urtò contro lo scafo e precipitò sul fondale, a 17 metri. Per orientarsi, De La Penne fu costretto a risalire in superficie con l’ausilio dell’ascensore. In superficie De La Penne constatò di essere a circa 15 metri al traverso delle torri di prora. Ridiscese per mettere in moto l’apparecchio, ma questo non si mosse perché un cavo d’acciaio della rete parasiluri si era impigliato nell’elica. Cercò allora il suo secondo e si accorse che Bianchi era scomparso (causa malore improvviso era dovuto emergere). De La Penne era dunque solo con il mezzo bloccato sul fondo. Si ripeteva la sfortuna di Birindelli a Gibilterra. De La Penne rifiutò di arrendersi e decise, facendo ricorso a tutte le rimanenti forze, di trascinare a mano il "maiale" fin sotto il bersaglio. Ora la relazione ufficiale di De La Penne:
"L’apparecchio si muove di qualche centimetro; non posso distinguere la bussola a causa delle nuvole di fango che sollevo lavorando. Ripeto la manovra. Sento una pompa alternativa e mi dirigo su di essa. Dopo qualche minuto sono tutto sudato. Gli occhiali sono appannati e non vedo più nulla. Mi fermo e tento di pulire gli occhiali per verificare la rotta. Durante questa operazione allago la maschera. Provo a scaricare l’acqua dall’interno e non ci riesco. Devo quindi berla. Verificata la rotta che è quella che avevo in precedenza calcolato, ritengo che potrò dirigermi con sufficiente esattezza, guidato dal rumore della pompa. Ricomincio il lavoro. Sono tormentato dalla sete e dal pensiero di come potrò fare il lavoro in carena. In qualche momento mi sembra di non poter più continuare per l’eccessiva fatica e per l’affanno e di dover quindi tornare a galla. La vicinanza del bersaglio però mi dà forza; non sono preoccupato per le eventuali bombe ma solo dal pensiero di non poter arrivare sotto la carena. Dopo 20 minuti circa mi fermo e mi riposo un po’; riesco a leggere la rotta che è quella voluta. La profondità è ora di 14 metri: Il rumore della pompa è più forte. Ricomincio a trascinare l’apparecchio e devo ancora appesantirlo dato che si alleggerisce per le variazioni di profondità. Questa volta compio il lavoro fermandomi più spesso. Le pieghe del vestito mi fanno molto male. Sento che mi avvicino a causa dell’aumentare dei rumori della nave. Gli ultimi metri sono i più duri; lavoro meccanicamente senza capire dove sono e cosa faccio. Mi accorgo che la pressione dell’acqua diminuisce. Mi fermo ancora per riposare e verificata la rotta, quindi ricomincio a trascinare l’apparecchio. Sono passati circa 40 minuti da quando ho cominciato. I rumori sono ora molto più forti e finalmente urto con la testa contro lo scafo. Con l’"ascensore" (apposita cordicella, avvolta ad una rotella assicurata la maiale, che consente all’operatore di salire in quota e ridiscendere senza dover ricercare il siluro nel buio pesto del fondo) eseguo un’ispezione sotto lo scafo per verificare la posizione in cui mi trovo. Non vi sono alette di rollio, ma la larghezza della nave è tale che mi considero in buona posizione. Torno sull’apparecchio, metto immediatamente in moto le spolette, per evitare che una eventuale bomba mi impedisca di terminate la missione, e ricomincio a trascinare l’apparecchio fino al completo esaurimento delle mie forze. Copro quindi il cruscotto con il fango per evitare che la luminosità possa indicare la posizione per eventuali ricerche, appesantisco completamente l’apparecchio e quindi, non ritenendo opportuno mollare le bombette incendiarie che possono localizzare facilmente l’apparecchio, mi porto in superficie lungo lo scafo. Appena a galla mi tolgo il respiratore e lo affondo: vedo che sono sotto le torri di prua. Nuoto per allontanarmi e dopo circa 10 minuti vengo chiamato da bordo. Continuo ad allontanarmi ma da bordo mi illuminano con proiettori e mi tirano una scarica di mitragliatore. Vado sotto bordo e mi dirigo sulla boa di prua della corazzata e lì trovo Bianchi che mi dice di essere svenuto ed essersi quindi ripreso in superficie. Lo informo che l’apparecchio è a posto e che le spolette sono in moto. Intanto da bordo ci dicono frasi irridenti perché credono che la nostra missione sia fallita: parlano di Italiani. Faccio notare a Bianchi che, se aspettano un paio d’ore avranno una diversa considerazione degli Italiani: intanto da bordo continuano a parlare ed a chiamarci. Pensando che debba salire a bordo per la catena dell’ancora, comincio ad arrampicarmi ma, trascorsi pochi secondi, vengo fatto segno da un’altra scarica di mitragliatore. Scendo allora sulla boa e non mi muovo più. Sono le 3 e mezza circa. Poco dopo si avvicina un motoscafo con due persone a bordo e ci ingiungono di alzare le mani. Al mio rifiuto non insistono: ci tolgono gli orologi e verificano se siamo armati. Saliamo dal barcarizzo di poppa: a bordo tutto è calmo. Veniamo portati in quadrato dove siamo messi sotto sorveglianza della fanteria di marina che ci fa segni di minaccia. Chiedo che mi diano una mano a togliere il vestito impermeabile e, mentre eseguo questa operazione, sono aiutato piuttosto brutalmente. Viene un ufficiale che mi chiede chi siamo e da dove veniamo; mi dice che non abbiamo avuto fortuna. Consegno i miei documenti e vengo quindi accompagnato, assieme a Bianchi, dall’ufficiale stesso sul motoscafo. Ci impediscono di parlare tra noi. Il motoscafo dirige per Ras el Tin. Veniamo portati dinanzi ad una baracca. Siamo fortemente scortati. Bianchi viene portato dentro la baracca dove resta pochi minuti. Quando esce mi fa segno di non aver detto nulla. Quando mi introducono nella baracca, trovo un ufficiale armato di pistola che mi chiede in italiano dove ho messo l’apparecchio e mi consiglia di rispondergli perché lui è molto nervoso avendolo fatto io alzare a quell’ora di notte. Siccome non rispondo, mi dice che il mio palombaro ha già detto tutto. Non gli do retta ed allora mi dice che troverà il modo di farmi parlare. Torniamo sul motoscafo che dirige verso bordo: sono circa le 4. Troviamo a poppa il comandante della nave che mi chiede anche lui dove ho messo la carica. Poiché mi rifiuto di rispondere, vengo accompagnato dall’ufficiale di guardia e dalla scorta verso prua. Attraversiamo i corridoi mentre la gente sta ancora dormendo. Ci fermiamo davanti al portello di una cala; mi fanno scendere assieme a Bianchi ed alla scorta. Noto che nella cala sono appesi al soffitto dei maniglioni da catena ed altri strumenti di ferro. Chiedo dove siamo e mi dicono che siamo fra le due torri: ritengo quindi che la carica sia proprio sotto di noi. Gli uomini di scorta sono piuttosto pallidi e molto gentili. Mi danno da bere del rum e mi offrono delle sigarette: cercano anche di sapere qualche cosa. Bianchi intanto si siede e si addormenta. Dai nastri del berretto dei marinai constato ce sono sulla corazzata Valiant. Quando mancano circa 10 minuti all’esplosione chiedo di poter parlare con il comandante: L’ufficiale che mi ha interrogato mi dice di conferire con lui: rispondo che voglio parlare con il comandante. Vengo allora portato a poppa alla presenza di quest’ultimo. Gli dico che fra pochi minuti la sua nave salterà, che non vi è più niente da fare e che, se vuole, è ancora in tempo per mettere in salvo l’equipaggio. Il comandante mi chiede ancora dove ho messo la carica e poiché non rispondo mi fa riaccompagnare nella cala. Mentre attraverso i corridoi, sento gli altoparlanti che danno l’ordine di sgombrare la nave che è stata attaccata dagli Italiani e vedo la gente che corre verso poppa. Rinchiuso nuovamente nella cala, mentre scendo dalla scaletta dico a Bianchi che è andata male e che per noi è finita, ma che possiamo essere soddisfatti perché siamo riusciti a portare a termine la missione, nonostante tutto. Bianchi però non mi risponde. Lo cerco e non riesco a trovarlo. Ritengo che gli Inglesi, sperando che io parlassi, lo abbiano portato via. Passano alcuni minuti ed avviene l’esplosione. La nave ha una fortissima scossa. Le luci si spengono ed il locale è invaso dal fumo. Sono circondato dai maniglioni che erano appesi al soffitto e che ora sono caduti. Non riporto ferite; solo un ginocchio mi duole essendo stato colpito di striscio da uno dei maniglioni stessi. La nave sbanda sulla sinistra. Apro un oblò che è molto vicino al mare sperando di poter uscire. Non mi è possibile farlo perché l’oblò è troppo piccolo; lo lascio aperto sperando che possa essere un’altra via d’acqua. Aspetto qualche minuto. Il locale è illuminato dalla luce che penetra dall’oblò. Ritengo che non sia prudente restare ancora in questo locale; sento intanto che la nave si poggia sul fondo e che continua a sbandare lentamente sulla sinistra. Salgo la scaletta e, trovato il portello aperto, mi avvio verso poppa; sono solo. A poppa vi è ancora gran parte dell’equipaggio che si alza in piedi al mio passaggio. Proseguo e vado dal comandante. In quel momento sta dando gli ordini per la salvezza della nave e gli chiedo dove ha messo il mio palombaro. Non mi risponde e l’ufficiale di guardia mi dice di tacere. La nave è sbandata di circa quattro o cinque gradi ed è ferma. Vedo da un orologio che sono le sei ed un quarto. Mi dirigo a poppa dove si trovano molti ufficiali e mi metto a guardare la Queen Elizabeth che è a circa 500 metri. Passano pochi secondi e anche la Queen Elizabeth salta. Si solleva dall’acqua per qualche centimetro e dal fumaiolo escono pezzi di ferro, altri oggetti e nafta che arriva in coperta da noi e sporca tutti quanti sono a poppa. Sono raggiunto da un ufficiale che mi chiede di dirgli sulla mia parola d’onore se sotto la nave vi sono altre cariche. Non rispondo e vengo di nuovo condotto nella cala. Dopo circa un quarto d’ora mi portano in quadrato ove posso finalmente sedermi e dove trovo Bianchi. Poco dopo m’imbarcano sul motoscafo e mi portano nuovamente a Ras el Tin. Noto che l’ancora che era appennellata di prua, è sommersa. Durante il percorso, l’ufficiale mi chiede se siamo entrati dalle aperture che sono nel molo. Rappresentazione grafica di Rudolf Claudus del momento dell'esplosione A Ras el Tin ci chiudono in due celle ove ci trattengono fin verso sera. Chiedo di essere portato al sole perché ho di nuovo freddo. Viene un soldato, mi sente il polso e mi dice che sto benone. Verso sera veniamo imbarcati su una camionetta che ci porta in un campo di prigionieri vicino ad Alessandria. Nel campo troviamo alcuni ufficiali italiani che hanno sentito nella mattinata le esplosioni. Senza mangiare ci sdraiamo a terra e, benché bagnati, dormiamo fino al mattino successivo. Vengo ricoverato all’infermeria per il colpo ricevuto al ginocchio, dopodiché vengo portato al Cairo."
|